Mentre i piccoli chierici, dopo la funzione, sbaraccano l’altare, il Menecacci realizza il benedetto servizio fotografico. Confessionali, banchi, sedie, candelieri: tutto è visualizzato e messo a fuoco, per il piacere della nitidezza: nitente l’organo e limpide le canne; nella sagrestia, si inquadrano gli stipi e i messali; pianete e sacre vesti, macrofotografiche, si adagiano comodamente nel grandangolo. Come negare uno scatto agli arredi più preziosi? Si fissano subitamente sul rullino. La santità delle res sacra non può trattenere gli avidi obiettivi: i reliquiari sono denudati, ed esposte al pubblico ludibrio le venerande ossa dei Santi; calici e pissidi schiacciati dai clic, ostie e ostensorî stritolati dai flash. E perché sia chiaro che non demoniaca libidine di sacrilegio lo invasa, ma golosità ottica, il Menecacci sale sull’altare e trafigge con le lenti le immagini; alle statue dei Santi, vagamente policrome, da una bella flashata, sia a quelle in cripta sia a quelle in navata. Perfino il simulacro del divino Infante deve mettersi in posa, e il crocifisso d’argento, triste cadaverino, si becca un close-up a tradimento.
Finalmente sazio, il Menecacci mi fa cenno che possiamo lasciare la chiesa. Ci affacciamo oltre le colonne che è già scesa la notte: la luna sorpresa si gonfia come ventre di rana sopra la punta del campanile. Proprio allora, sentiamo suoni lontani di esultanza giovanile, e un cigolio di ruote. Ecco che si avvicina. Dalle ombre del seminario, cavalcata da un gagno magro magro, sbuca una bicicletta. E già questo ci turba giacché, secondo il Lombroso¹, la bicicletta è il veicolo più rapido nella via della delinquenza, e la passione per il pedale trascina al furto, alla truffa e alla grassazione. Ma questa bicicletta è ancora più paurosa: ha accrocchi fiammeggianti al posto delle ruote! E il cavaliere è altrettanto inguardabile: le mani sul manubrio sono proprio scheletriche, e la sua testa è un teschio spaventoso.
Guida la bicicletta banditesco sulla parete del campanile, arriva sulla cima in derapage, spicca un salto, si fa una corsa in cielo, dando un saggio di fiammante aeropittura sul fondo della notte. I moccoli della scia di fuoco precipitano su di noi, una goccia di fiamma si stampa sulla macchina fotografica del Menecacci, fondendola completamente.
Dal finestrotto del campanile, si sporge Don Giusquiamo, mostrando i pugni all’enfant terrible. “Giovanni, piantala lì! Ogni notte la stessa storia. Non hai niente di meglio da fare? All’altro mondo, non si va a letto presto? Domani non devi studiare?”
Giovanni gli risponde: “Ma nemmeno per sogno! Si va a scuola serale, e si sta svegli da mezzanotte all’alba. E poi, anche se fosse, caro padre, farei vola. Devo vendicarmi dello scherzo della dinamite, e verrei lo stesso a disturbarti ogni notte a quest’ora.”
“Ora ho capito” dico al Menecacci “il ciclista è il poor Giovanni degli aneddoti del don. Ma perché vuole vendicarsi? Il don non l’avrà mica fatto esplodere di proposito.”
“Invece sì” ribatte il Menecacci. “Non conosci la storia? È la favola della città: prima della guerra, Don Giusquiamo ha messo incinta una bella parrocchiana, che poi ha dato alla luce il poor Giovanni. Che, a cinque anni appena compiuti, andava già incoercibilmente a dire in giro che era il figlio del prete. La voce si è sparsa a tal punto che il don, pour cause, ha imbottito di esplosivo la bici di Giovanni e l’ha mandato a farsi esplodere in una riva.”
Hai capito il don! Evidentemente, il numero delle sue avventure amorose supera di molto quello delle sue storie resistenziali.
Prima di allontanarmi, do un’ultima occhiata alla scena: Don Giusquiamo rosso in volto cerca di prendere la bici per la ruota di fiamma posteriore, ma si scotta e si soffia sulle dita per scacciare il dolore; il revenant ciclista se la ride, e pensa che ogni notte non è male venire a fare scherzi e guasti nel mondo materiale.
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