[pubblichiamo su mrt il primo racconto della raccolta Lo zelo e la guerra aperta, libro scritto a sei mani, dalla cooperativa di narrazione popolare. il secondo dei tre racconti sarà pubblicato su tracce nella rete, fra due giorni. il terzo e ultimo, venerdì, su yattaran]
Inadatto al volo
di Ilaria Giannini
Io vengo dall’errore, uno solo:
del tutto inadatto al volo.
(Manuel Agnelli, Dentro Marylin)
L’urlo soffocato che mi sveglia all’improvviso puzza di aspirina e detersivo per piatti. È notte fonda e sono riverso in un bagno di sudore, con gli occhi sbarrati sul soffitto, ma almeno sono riuscito a non emettere neanche un suono: Michela dorme ancora accanto a me, rannicchiata sul fianco preferito.
Mi passo le mani sul viso e spingo i pollici contro le palpebre ma non serve: la faccia di Nocera mi incombe ancora addosso, come un presagio di morte. Lui e i suoi occhialetti di plastica da giovane alternativo, glieli farei ingoiare a forza, insieme ai sogghigni nella pausa caffè e alle pacche sulle spalle dopo le riunioni, che riescono sempre a farmi sembrare un pischello anche se c’ho già ventinove anni, di cui gli ultimi cinque spesi alle dipendenze di ‘sto stronzo, che pure in sogno viene a perseguitarmi.
I fari delle macchine di passaggio si riflettono ritmici, contro le persiane della porta finestra: fasci di luce che mi illuminano i piedi e il viso, prima di liquefarsi nel nero della stanza. Mi metto a contarli, sperando di prendere di nuovo sonno, ma è una pia illusione.
Quinta notte in bianco e un altro giorno d’agonia di fronte: la mia angoscia porta la data di scadenza del 31 marzo. La fine del contratto a progetto, della spada di Damocle sopra la testa, delle mie giornate retribuite.
Per allora sarò libero, comunque vadano le cose, e potrò smetterla di esercitarmi in sonno per la maratona nel corridoio dell’ufficio del capo. Dovrei solo abituarmi all’ansia, in fondo ho già superato quattro rinnovi, posso definirmi un veterano del precariato, dovrei stare tranquillo e anzi, a dirla tutta, dovrei già essermi trovato un santo in paradiso che mi togliesse da ‘sta situazione.
Invece ogni volta vado in tilt: mi passa l’appetito, arrivano insonnia e manie di persecuzione, e i sogni, quelli sono l’aspetto peggiore di tutta la vicenda. Stanotte ho guardato il tritadocumenti dell’ufficio che si mangiava lentamente tutta la mia cartellina, la mia patetica storia di dipendente: i contratti, le visite mediche obbligatorie, i certificati dei permessi e l’autorizzazione per un giorno o due di ferie. Li ho visti ridotti a brandelli, mentre Nocera rideva e la Carla si applicava lo smalto trasparente: li ho osservati scomparire nel cestino della carta straccia, mentre il Paolini s’affacciava per domandare una spillatrice, una piccola cortesia, la nostra se l’è fregata la donna delle pulizie – un’altra volta, Paoli’, stateci un po’ più attenti, toccherà istallare le telecamere per scoprire il ladro. E mentre il ronzio del tritadocumenti sommergeva la mia voce, stanotte, mi sono sentito dare del bugiardo al collega: ruberesti anche la fotocopiatrice se non l’avessero imbullonata al pavimento!
Ho urlato così tanto da ritrovarmi sveglio, con la bocca spalancata e muta contro il lenzuolo. Meno male che di colpo il sonno mi cala addosso pietoso, mi avvolge nelle sue spire, mi tiene un altro po’ con sé, prima di consegnarmi a un nuovo giorno.
Sono le sette del 30 marzo. Mi restano 48 ore.
«Allora Luchino, lo vuoi un caffè?».
«M’è rimasta la chiavetta nella giacca».
«Capirai, offro io».
Alle otto e mezza sono troppo stanco per dire di no, persino a Giampiero Paolini e pazienza se l’ho insultato per tutta la notte, è un povero cristo anche lui, un cleptomane di cancelleria esaurito da trent’anni di ignavia. Per ricambiare, gli infilo una sigaretta in mano.
«Mi fa male, va be’, grazie eh. Allora, sei pronto per la riunione?».
Aspiro il primo tiro del giorno, rannicchiato nell’angolo del terrazzo. La tempia destra inizia a pulsare.
«Sono tre giorni che faccio fotocopie, scommetti che non ci si rinverrà nessuno nella nuova procedura informatica?».
«Luchì, te proprio non impari mai, sei incorreggibile, mi spieghi che cazzo te ne frega a te se la gente fa del casino col nuovo sistema? L’hai deciso tu? No, appunto, impara a dare la colpa a quegli altri. E poi, se non ti dài una mossa, ti ritrovi a cerca’ un annuncio per lavapiatti sul Tirreno!».
«Ma guarda, a volte penso che sarebbe meglio, finirla con questa farsa, questa commedia… E comunque, credi che non sia andato a rompe’ le palle a tutti, eh? Fanno finta di nulla, Nocera tra una storia e quell’altra è due settimane che non si fa trova’, è diventato scemo a forza d’inventarmi scuse, dovevo già ave’ firmato il rinnovo a senti’ lui. Ma lo sai che ha fatto ieri? M’ha mandato una mail per dirmi che ero in ritardo col report, che faccia di culo…».
«Te devi scavalcarlo Nocera, da’ retta a me, devi andare sopra di lui, alla fonte diciamo».
«Ma che fonte… Lasciami perde’ Giampie’, vado a farmi dare un’altra risma di sotto, ti serve qualcosa?».
«Le graffette. C’hai una testa però, finisci male così!».
Alzo il braccio giusto un secondo, il tempo per farlo allontanare con quest’immagine di me, che me ne vado triste, sì, ma forte per la mia strada, verso la mia carta aggiuntiva: deciso a fare il mio lavoro fino in fondo.
Ma la sceneggiata si sgonfia subito oltre la curva del corridoio, terra nemica.
Scendo le scale contando i battiti delle mie scarpe sui gradini, senza mai alzare lo sguardo. In segreteria lo stagista mi allunga il pacco richiesto, con un sorrisetto di circostanza: la notizia del mancato rinnovo del mio contratto ha percorso tutti i gradi della catena alimentare del Comune, per arrivare fin qua, all’ultima ruota del carro, che adesso si permette pure di rifilarmi un po’ di compassione di circostanza.
Riguadagno la mia postazione a grandi falcate e mi sparo a ripetizione l’ultimo disco dei Coldplay: le cuffie, saldamente attaccate alle orecchie, mi proteggono dal mondo, sono il mio scudo magico per immergermi nel lavoro ossessivo e senza ritorno.
Non che qui all’ufficio protocollo ci sia da spaccarsi la schiena più di tanto: si registrano gli atti, si smista la corrispondenza e le richieste a chi di dovere, si beve parecchio caffè. Eppure se ci fermiamo noi, se ne va tutto a puttane. Non c’è nessun dirigente che non sia costretto prima o poi a passare da qui, o meglio: non c’è dirigente che Nocera non abbia costretto a fare la questua, bloccando documenti cruciali e ritardando operazioni semplicissime fino alla nausea – la nostra e quella di chi attende. Tutto il potere del mio capo si fonda sulla peggiore incarnazione della burocrazia: le scartoffie. Chiunque gli deve almeno un favore, a lui che è stato la causa e solo in seguito la soluzione dei loro problemi: nessuno si azzarda a mettersi contro quello che è il centro pulsante dell’amministrazione, anche se è un cuore fiacco e malevolo.
«Sono davvero scarso, Giampie’, in cinque anni non ho imparato niente dal Nocera, che allievo di merda. Quando uno non è buono è inutile insiste’, tanto vale rassegnarsi».
La seconda sigaretta della mattina ha il sapore stantio dell’acidità di stomaco che precede l’appetito di mezzogiorno. Il Paolini aspira la sua come un condannato a morte, in attesa della sentenza definitiva.
«Ma possibile che tu non c’abbia niente in mano, un ricattino, un passo falso, nulla?».
«Sono un coglione. Te la ricordi due anni fa la tizia del certificato, quella che ci fece causa? Era colpa sua, sai, accidenti a me e a quando sono stato zitto…».
«Ma quella è roba vecchia, hanno archiviato tutto, non interessa più a nessuno».
«Mi sa che me ne vado davvero a comprare il Tirreno, oggi c’è l’inserto con gli annunci di lavoro».
«Falla finita Luca, se te ne vai te io mi sparo, con chi vado a mangia’, con quella? Piuttosto muoio di fame».
La bocca di Giampiero si storce in direzione del corridoio: dietro il vetro della terrazza sta passando Carla, così assorta nei suoi nuovi stivaloni da signora del West da non essersi neppure accorta di noi.
«Oh, che ore sono? Le undici e mezzo? Scommetti che se la svigna a farsi la messa in piega? Che tegame ridipinto che è quella, ai miei tempi neanche una botta da ubriaco l’avrei dato».
La prima risata della giornata è per una battuta sessista del Paolini, che peraltro ho già sentito almeno duecento volte. Rendermene conto non aiuta il mio spirito.
«Quella con te non ci sarebbe mai venuta, hai mai contato qualcosa te? Forse giusto alle elementari, quand’eri il più grosso e le davi a chi ti stava sulle palle».
Stavolta è lui ad esibirsi in una grottesca imitazione di riso.
Torno alla mia scrivania con la consapevolezza che Carla è davvero andata dal parrucchiere e per di più non l’ha mai data via: né al Nocera, né ad altri capoccia del Comune, né – per quanto ne so io – a qualsivoglia forma di essere maschile. Trattasi della forma più raffinata di prostituzione: quella che riesce ad ottenere qualcosa solo promettendo di aprire le gambe. Se avessi un cappello me lo toglierei in segno di rispetto.
«L’hai protocollata ‘sta roba o devo pensarci io?».
Tessa Innocenti m’aspetta al varco, in tutto il suo metro e cinquanta di pura rottura di cazzo.
«Lo faccio io, tranquilla, anzi guarda inizio subito, eh? Però finisco domani mattina, Nocera mi ha detto di dare la priorità alla riunione di oggi».
«No, è che si accumula lavoro, capisci, la cartella della posta in entrata è sempre piena e almeno la togliessero da qui, non posso alzarmi senza vederla, è ingombrante».
«Sì, guarda prendo tutte le pratiche e le porto da me, ok?».
«Ma puoi lasciarle anche qui, anzi rendimele che ci penso io, le archivio tutte entro le due».
«Ma non stare a disturbarti, ho un sacco di spazio, ho dato una sistemata giusto ieri e oggi mi ci metto, eh?».
La discussione potrebbe durare fino all’esaurimento delle mie capacità verbali ed emotive: non resta che fingere una chiamata al cellulare e uscire dalla stanza.
Farsi vibrare il taschino della giacca è umiliante ma discutere con Tessa è improponibile: la sua presunzione e il suo zelo non hanno limiti, a quarant’anni suonati non ha ancora capito che non la porteranno da nessuna parte. Senza contare che mi odia. La raccomandazione che l’ha fatta entrare era debole ma sempre più pesante della mia, che si muove lungo una catena di amici-di-amici che in cinque anni si è lentamente disintegrata. La mia condizione di disgraziato le ha tolto il primato di dura e pura, ci aveva messo così tanto impegno per incoronarsi martire e poi arrivo io, che proprio non me lo merito: appena posso mi imbosco, non mi faccio venire l’ulcera se si accumulano un po’ di arretrati e quando ho 37 di febbre mi metto in malattia.
Ha ragione Tessa: sono uno statale nullafacente, come tutti qui dentro. L’unica differenza tra me e loro, è che io non ho parenti o amanti che contino e domani il Nocera mi metterà alla porta, senza troppi complimenti.
«Quindi, una volta inserita la password vi ritroverete in questo ambiente di lavoro, ci siamo? É molto semplice, intuitivo, provate».
Ci siamo accatastati nella stanza di Giampiero, per questa riunione al gran completo: nel bugigattolo che condivido con le due arpie non ci saremmo mai entrati e l’ufficio di Nocera è, manco a dirlo, off limits. L’unico proiettore in possesso del Comune sta rimandando sul muro le immagini del nuovo programma informatico per la gestione della posta, così semplice che anche mio nipote di sei anni riuscirebbe ad usarlo. Ma è comunque necessario spiegare ogni cosa nei minimi dettagli – ripetersi – mettere tutto nero su bianco per pararsi il culo: questa lezione almeno l’ho imparata bene.
«Abbiamo capito Luca, queste procedure moderne vogliono farci passare per scemi, lo sai che non mi convincono mai al cento per cento, sarà meglio che una volta chiusa la pratica vi facciate comunque una bella stampa, di carta, eh, anzi fai così, scrivilo nella guida che stai preparando, la stai preparando, vero?».
Nocera sulla scrivania non tiene una foto dei figli o della moglie, neppure uno di quei calendari con le località esotiche, che servono a distrarre l’occhio, e tantomeno un’immagine che possa rimandare a una qualche mitologia personale, musicale o cinematografica. Nocera, di lato al computer, ha messo uno scatto di se stesso una quarantina d’anni fa: un ragazzo in eskimo, con la barba abbondante sopra il maglione a collo alto, immortalato nei gloriosi anni della ribellione studentesca. Un tipo secco e lungo, seduto su un muretto, irriconoscibile se non fosse per gli occhialoni di plastica nera, così simili a quelli che porta adesso da credere che non abbia mai cambiato montatura dalla fine degli anni Sessanta.
Questo è Antonio Nocera: uno che ha costruito da solo il suo mito personale e lo porta avanti, giorno dopo giorno. Uno che si vuole particolarmente bene. In compenso, non ne vuole a me. Mi sta mettendo in croce da dieci minuti con le sue domande superflue, che servono solo a darmi del cretino con garbo.
«La guida, ma certo, mi sono permesso di stamparne una copia a testa, eccola».
La distribuisco con cura, fiero di come ho impaginato il pdf, del mio inutile e trascurabile momento di professionalità.
«E bravo Luca, preciso, eh Carla, scommetto che adesso ci capisci qualcosa anche te».
«Lo sai, sono negata per certe cose io!». Segue risatina isterica di lei: segue pressione dei miei pollici sulle palpebre. Vedere sempre il peggio nella gente mi stanca.
«A guardare bene però Luca, forse sei stato frettoloso, eh voi giovani, sempre a mandarvi messaggini, eh, sempre lì sui computer, dovreste ragionare un po’ di più». L’attacco apparentemente insensato di Nocera non porterà niente di buono.
«Frettoloso? Pensavo di doverla fa’ per oggi».
«Avresti fatto bene a veni’ da me prima, a mandarmi una mail per farmela revisionare prima di stamparla, mi dispiace dovertelo dire così, guarda che lavoro hai fatto».
Mentre cerco le parole, mentre domino l’impulso di dirgli la verità in faccia – una volta per tutte, sì, come venire dopo una scopata lunga e fiacca, finalmente: esplodere – mentre cerco una buona ragione per non farlo davvero, per non terminare alla grande gli ultimi giorni di questa vita brutta e noiosa: li vedo. Giampiero Paolini, classe 1954, figlio unico dell’ex leader della sezione locale del PCI, sta rosicchiando una matita fino al cuore della grafite: è preoccupato per me ma non troppo, ché sa il mio destino già segnato. Carla Fantoni, trentasei anni a stagionatura lenta, è rilassata nel suo cerone d’ordinanza, nelle sue scarpe tacco dodici fuori luogo. Dubito si sia mai resa conto della mia esistenza reale. Tessa invece si sta godendo la mia umiliazione, è così agitata che le si è incastrata una goccia di sudore tra la tempia e il sopracciglio, aspetta il crollo ma un dettaglio la preoccupa: sì, lei lo sa, lei mi ha osservato così tanto da conoscermi più di me stesso e c’è qualcosa, qualcosa nel fondo dei miei occhi, che le fa temere che non ci sarà nessuna scenata, nessuno scoppio d’ira, ché anche stavolta non me ne frega un cazzo. È così? Sì, non me ne frega un cazzo: che se ne vadano al diavolo Nocera, le procedure informatiche, i pdf e le matite smangiucchiate.
«Scusami Antonio, c’hai ragione te, la fretta è cattiva consigliera, se mi spieghi dove ho sbagliato sistemo tutto con calma».
Il profilo di Michela splende nella luce dalla lampada da cucina, mentre taglia a rondelle le cipolle. Stasera mi cucinerà la frittata che mi piace tanto e sopporterà l’alito di morte tutta la notte, stasera stenderà un velo abbondante d’olio sulle verdure al forno e al momento buono tirerà fuori dal freezer la vodka ghiacciata. Se non è amore questo, non saprei dire cos’altro.
Sto bevendo la mia birra polacca davanti alla tivù senza guardarla: la scatola parla e parla e io ripenso a tutte le parole che ci siamo detti in questi anni, noi dell’ufficio protocollo, al tempo buttato via, alle facce a cui mi sono dovuto abituare. Ripenso alla gioia dei miei quando ho firmato il contratto di collaborazione, agli occhi di Michela quando l’ho stesa sul tavolo della cucina, il primo giorno che siamo entrati in questa casa. La nostra. Se non trovo un altro lavoro dovremmo lasciarlo, questo monolocale soppalcato dove siamo felici e riusciamo addirittura a non romperci troppo le palle a vicenda, che è una conquista a cui non arrivano le coppie sposate da una vita. I risparmi non dureranno a lungo e con la mia laurea in storia potrebbero volerci mesi a ritrovare un’occupazione decente: di tornare a servire ai tavoli per trenta euro a sera non se ne parla. Michela frequenta ancora l’università e lavora part-time come commessa in un negozio di intimo, ma con quello che guadagna ci paghiamo giusto le bollette e la spesa settimanale.
La guardo mentre si raccoglie i capelli scuri sulla testa e penso che non mi sto impegnando abbastanza per farmi rinnovare il contratto, che se non voglio umiliarmi per me dovrei almeno farlo per noi e se mi faccio degli scrupoli e mi vergogno ancora, dopo cinque anni in cui ho visto e ingoiato di tutto senza muovere un dito, questo è un bene e un male insieme. Bene perché dimostra che forse un briciolo di coscienza m’è rimasta, se almeno arrivo a rendermene conto: male perché è ipocrisia allo stato puro. Nella merda ci sono fino al collo, tenere fuori la testa per illudermi di essere rimasto pulito è una bugia, che rifilo prima di tutto a me stesso. Tanto vale andare sotto.
«M’è venuta un’idea: e se chiamassi il mi’ nonno? È una vita che me la mena con la storia che lui e il Lucchesi hanno fatto la resistenza insieme, sai il Lucchesi, il consigliere provinciale? Non che conti un granché ma boh, potrei anche provare…».
Michela mette la teglia in forno e si volta, mi guarda con quel suo viso un po’ orientale, che non capisci mai se sta per abbracciarti o mandarti in culo.
«Mi pare una buona idea, tanto che c’hai da perdere? Ma fallo davvero, fallo adesso, muoviti».
Afferra il cellulare dal tavolo e me lo lancia sul divano. Alzo lo sguardo e la ritrovo immobile, con le braccia conserte: segno che se non digito il numero entro trenta secondi scatenerà l’inferno.
Il telefono squilla per un po’, immagino il nonno scendere le scale della casa dove vive solo, dopo la morte della nonna: lo vedo arrancare con la sua anca malridotta, fino all’apparecchio antidiluviano che si ostina a tenere nell’ingresso.
«Pronto?». Ha il fiato corto, lo sento fin da qui.
«Nonno, so’ io. Devi mette’ il telefono di sopra, c’hai la testa dura come il legno, senti lì, non respiri».
«Luchì, hai telefonato per rompe’ le palle?».
Mi scappa da ridere.
«Veramente no, c’avrei da chiederti un favore… Te l’ha detto la mamma che domani mi scade il contratto? In pratica, tra poco sarò disoccupato, quello stronzo del capo mi butta fuori in tre balletti e via».
«Me l’ha detto sì, che mondo che è diventato, a mi’ tempi non ti potevano mica manda’ via così, da un giorno a quell’altro, ci saltava di mezzo il sindacato e piantava un casino che la metà bastava. Oggi invece non si conta più una sega, che mondo Luchì… Ma c’hai bisogno di soldi? Io qualcosa da parte ce l’ho, per carità non è tanto ma se c’hai dei debiti o altro, te dimmelo eh?».
Il sorriso mi muore sulle labbra: ho un groppo piantato in mezzo al petto che mi impedisce di deglutire, di piangere, di muovere un muscolo. Resto così per qualche secondo.
«Ci sei?».
«Nonno, non voglio soldi, non ti preoccupa’. M’è venuta in mente una cosa però, m’hai sempre detto che te e il Lucchesi siete amici, che avete fatto la guerra insieme, ecco dall’anno scorso è consigliere in provincia, magari non può fa’ nulla per me ma ti romperebbe fargli una telefonata?».
«Ma sei scemo, me l’avevi a di’ prima! Io mica lo sapevo che era in provincia, è una vita che non lo vedo, oddio Luchì non lo vedo da quando è morta la nonna, venne al funerale con la su’ moglie, è un uomo che non ce n’è, e poi altro che amici, guarda che io in guerra gli ho salvato la pelle a Adelmo».
«Sì ma non lo chiamare ora, sono le nove, che figura ci si fa, magari è a cena e tu gli rompi le scatole, chiamalo domattina e poi fammi sape’. Ricordati di dirgli che lavoro al protocollo e che il mio capo si chiama Antonio Nocera, c’hai da scrivere?».
«Non sono mica rincoglionito!».
«Nonno, scrivi che poi te lo scordi!».
Cinque minuti di discussioni dopo, lo convinco a segnarsi tutto su un pezzo di carta e insisto a dirgli che non importa, comunque vada, tanto sono spacciato, e non deve esagerare, basta una parola buttata lì, senza diventare pietosi.
Attacco con la consapevolezza che il nonno farà come gli pare: non ha dato retta a nessuno per 83 anni e di certo non inizierà adesso, con me.
Michela sembra contenta lo stesso, si sdraia sul divano e mi bacia. Profuma di olio e prezzemolo. Affondo la testa nei suoi capelli e mi preparo a dimenticare tutto. Almeno, per la prossima mezz’ora.
«Dovresti provare a schiarirti solo le punte, fidati, va un casino quest’anno».
«Ma non fa un po’ l’effetto ricrescita, cioè, un po’ tamarro, no?».
«Ma no, basta scegliere la nuance giusta, è una questione di sfumature».
Digita. Digita. Continua a digitare. Abbassa gli occhi sulla tastiera per non sentire, immagina che Carla sia una bella pianta da interno, un ficus magari, elegante e soprattutto silenzioso. Tessa invece è un mobile Ikea, sì, un cassettone Bodo, la linea meno costosa: con un cassettone non ci si può incazzare, un cassettone al massimo si inceppa sui suoi cardini e allora gli si tira un calcio ma così, tanto per fare, una pedata distratta.
Niente, non funziona. La vacuità delle loro chiacchiere non smette di bucare la bolla della mia concentrazione, di questo disperato tentativo di andarmene con un briciolo di dignità. Sto sbrigando tutto il lavoro rimasto in sospeso, perché nessuno possa dire da domani: guarda Luca che sfaticato, ci ha messo nei casini. Anche se lo diranno lo stesso non importa, sarà troppo comodo avere da incolpare delle proprie mancanze qualcuno che non è lì a difendersi, li capisco.
Sono le 11 del 31 marzo. Mi restano sei ore e il nonno non ha ancora richiamato. L’ho anche cercato a casa e ho lasciato squillare a vuoto per un bel po’: probabilmente si è dimenticato di chiamare il Lucchesi o forse non ha capito la gravità della situazione e pensa che io abbia tempo, pensa di poter domandare il favore al suo vecchio amico un’altra volta, magari al prossimo funerale dove s’incroceranno, tra due o tre anni.
Ecco perché io non chiedo mai aiuto alla mia famiglia, ecco perché conto sulle mie forze da quand’ero piccolo, non sono in grado di fare niente per me: gente buona solo a spaccarsi la schiena e a farsi fregare dal primo che passa, gente che ha sempre raggiunto meno di quel che meritava.
Sto battendo con così tanta foga sui tasti che le due arpie si voltano, il ficus e il mobile Bodo: mi fissano come se fossi un alieno, come se le mie cinque ore e mezzo fossero già scadute e io non avessi alcun diritto di stare qui, ad infastidirle con i miei rumori e la mia sola presenza.
Fingo di non essermi reso conto dei loro ghigni e riabbasso la testa. Peccato non potersi mettere le cuffie ma devo assolutamente parlare con Nocera e oggi si muoverà silenzioso per i corridoi, sarà difficilissimo intercettarlo, devo stare all’erta: ci scambierò due parole a costo di seguirlo fin dentro il cesso. Non che io mi faccia illusioni, ormai è inutile, tanto varrebbe discutere la mia posizione con il portiere, a questo punto dei giochi, ma non lascerò che mi licenzi senza neanche avermi guardato in faccia. No, questo favore non se lo merita.
Per essere sicuro di non mollare la mia postazione di guardia mi piazzo con un panino di fronte alla porta dell’ufficio: dovrà presentarsi al lavoro, prima o poi.
Come al solito, ho sottovalutato Nocera. Arriva alle due e mezza, quando le ragazze sono ancora fuori a pranzo e io gioco al solitario al pc, spossato dall’appostamento. Non vado in bagno dalle nove e le gambe mi formicolano.
Lo guardo scivolare veloce davanti ai miei occhi e ci metto trenta secondi a collegare nervi oculari, cervello e azione: ad associare la visione della sua faccia al nome, il nome al ruolo, il suo ruolo al mio essere qui e alla precarietà del mio essere qui. Scatto in piedi e mi ritrovo davanti un corridoio vuoto. Busso al suo ufficio senza aspettare, senza nemmeno sistemarmi la camicia dentro i pantaloni. Entro prima che abbia il tempo di dire qualsiasi cosa.
«Luca ma che modi, non vedi che ho da fare?»
Sta trafficando dentro l’armadietto di lato alla scrivania, lo richiude svelto e mi lancia un’occhiata di noncuranza.
«Scusami Antonio ma ho davvero premura di parlarti, forse te ne sei dimenticato ma oggi è il mio ultimo giorno di lavoro, tra circa tre ore mi scade il contratto».
Restiamo immobili per qualche attimo, ognuno a difendere il suo spazio, neanche fossimo due pistoleri in un film di Sergio Leone. È un pensiero talmente ridicolo che mi affiora un sorriso.
Nocera lo prende per un segno distensivo e si mette a sedere. Se spera che non gli pianterò casini si sbaglia di grosso.
«Accomodati Luca, avrei voluto parlartene io stesso nei giorni scorsi, ma eri così preso dal tuo progetto informatico che non me la sono sentita di disturbarti, eri così concentrato, è bello vedere quanta passione metti nel tuo lavoro».
«Ti ringrazio, Antonio. Sono qui proprio perché vorrei continua’ a mettercela, questa passione, capisci».
«Che non ti capisco? Non scherzare, io sono uno che c’ha buttato l’anima e il cuore in questo posto, a fare gli straordinari gratis solo per far andare tutto avanti nel migliore dei modi, mia moglie poveretta una volta mi disse: sarebbe meglio c’avessi l’amante almeno c’avresti più tempo per la tua famiglia».
Ride e io con lui, facendo più rumore che posso, mentre la mano destra gratta l’interno della tasca dei jeans: se continua a rifilarmi le sue stronzate finirà che la buco e Michela col cazzo che me la ricuce.
Devo reagire subito, prima che mi metta al tappeto con la sua retorica: ok, facciamo a chi le spara più grosse.
«Ce ne fossero di più di capi come te, questo Comune sarebbe un paradiso eh, tu sì che sai dirige’ le persone e le sai anche motivare, guarda me, so’ entrato che ero un bimbetto e ho imparato tantissimo, grazie a te soprattutto Antonio, ecco io vorrei ringraziarti proprio di cuore».
L’ho spiazzato, vedo il sorriso a trecentosessanta denti che si incrina di lato.
«Tu sei troppo buono, Luca, ah me lo ricordo bene com’eri, un pulcino spaurito, ma adesso sei cresciuto, forse è l’ora di spiccare il volo, non credi?».
«Non ho capito…», balbetto. Non so dove sta andando a parare, ma l’istinto mi suggerisce che non sarà niente di buono.
«È questo il tuo limite, ne parlavo anche qualche giorno fa con Giuliani della direzione, tu voli troppo basso Luca, da quanto sei qui? Quattro anni? No, cinque, ecco: in cinque anni mai una proposta di crescita da parte tua, e sei anche uno dei pochi laureati, mi aspettavo qualcosa di più da te».
«Vuoi che lavori di più, non c’è problema Antonio, sapessi quante cose non ho detto per paura che non si potessero fare, per non creare problemi… Aspetta fammi fini’ un attimo, prendi il nuovo sistema elettronico per la posta, si potrebbe estendere a tante altre procedure, io lo svilupperei senza problemi, e poi anche sistemare un po’ il sito del Comune, prendere anche dei fondi europei per l’e-government, ho fatto un corso sulla gestione dei fondi europei, potremmo fare tante cose…».
«Ah Luca, ma sei ammattito? Per i fondi europei c’è l’ufficio apposta, noi siamo al protocollo, ci occupiamo di altro, se te lo devo dire dopo cinque anni siamo messi male, ragazzo mio, lascia perdere il pubblico, non c’hai proprio la testa, te devi andare in un’azienda privata, guarda te lo dico col cuore in mano, per il tuo bene. Fa’ conto io sia il tu’ babbo, eh, come età ci siamo».
«Ma così, su due piedi, Antonio, parliamoci sinceramente allora, se devo considerarti come il mi’ babbo, chi vuoi che mi assuma così, adesso, in questo momento e con una laurea in storia? Sì, ho esperienza ma come ben sai non è che serva poi molto. E poi io qui posso dare tanto, sono ambientato, mi so muovere… Insomma, mi vuoi lascia’ senza lavoro, in mezzo alla strada, così, dopo cinque anni!».
Nel silenzio che di botto cala nella stanza, mi sembra di sentire il mio petto che si alza e si abbassa, troppo più velocemente del solito. Nocera scatta in piedi e viene dal mio lato della scrivania: mi sforzo di non indietreggiare con la sedia e resto immobile, come la preda che si finge morta per non essere azzannata.
«Luca, io ti sono nel cuore, ma voi giovani d’oggi dovete imparare che non c’è niente di regalato al mondo, i risultati bisogna sudarseli, voi volete il posto statale, eh, e lo stipendio a fine mese, tutto garantito, senza sporcarvi le mani, fuori c’è la crisi e voi vi comprate la macchina nuova e poi vi lamentate che non c’avete soldi. Mi fate un po’ pena, non avete più valori, alla vostra età io studiavo e scendevo in piazza con i miei compagni e la domenica andavo a vendere l’Unità casa per casa, io volevo fare la rivoluzione e voi volete il posto fisso!».
Lo guardo e non so come mi trattengo dal dirgli quel che penso davvero, non capisco quale forza interiore riesco ad evocare per incatenare la frustrazione e la voglia d’uccidere e di spaccare tutto che mi sale dentro e brucia: questo cumulo di rabbia che si è fermato qui, proprio sotto lo sterno, e mi blocca il respiro, mi fa tremare i polsi.
«Ascoltami Luca, io ti sto facendo un favore a mandarti via adesso, sei giovane, ti sei fatto le ossa, puoi mirare in alto, puoi trovare un lavoro dove valorizzino davvero le tue capacità».
Ha trasformato una banale ipocrisia di routine in arte sublime e ormai ci crede davvero alle puttanate che dice, alle bugie con cui ammanta il suo passato di arrivista e il mio futuro di morto di fame. Ma io lo conosco troppo bene, con me non attacca e se riesco a dominare la collera posso farcela, ché è quella che mi frega, me lo dice sempre Michela, quando mi arrabbio io non connetto più: o distruggo qualcosa oppure mi sigillo in un silenzio ostinato, a implodere da dentro.
Ma oggi no. Oggi volo alto.
«C’hai ragione Antonio, ma che ci posso fa’, a me piace questo lavoro e poi ci sono i colleghi, tutte persone squisite e un capo come te, non è mica facile anda’ via, in un’azienda privata dove magari pensano solo al profitto, tu hai fatto il Sessantotto, chi meglio di te mi può capi’. Comunque, c’hai ragione, dovrei ascoltare i consigli di chi ha più esperienza di me, sai chi me l’ha detto l’altro giorno che potrei fare di più, di mirare alto? Adelmo Lucchesi, il consigliere, non so se lo conosci, un uomo perbene, proprio un signore, lui e mio nonno sono amici da una vita, hanno fatto la guerra insieme, sui monti eh, partigiani! S’era a pranzo e io gli raccontavo quanto mi piace lavorare qui, che capo straordinario che ho, e lui non lo sapeva sai, non è che in provincia seguono tutte le vicende dei comuni, c’hanno le loro gatte da pelare! Comunque m’ha fatto il tuo stesso discorso, forse ci dovrei pensa’ un po’ sopra».
Nocera si allontana, si afferra le mani dietro la schiena e quando si volta mostra la stessa faccia noncurante e sorridente di prima, ma possa venirmi un colpo se non me ne sono accorto, l’ho sorpreso con la stessa smorfia in almeno cinque o sei riunioni difficili. Un pokerista abile non cambia espressione neppure quando l’ultima carta gli rovina il gioco: incassa e cerca di uscirne nel miglior modo possibile. E poi, il mio bluff è così assurdo e allo stesso tempo plausibile che non può smascherarmi, non su due piedi almeno.
«E pensaci sopra allora Luca, anzi facciamo così, ci pensiamo sopra entrambi e poi ci risentiamo, ne parliamo con calma domani ma non adesso, io ho un appuntamento e tu devi ristampare la guida corretta, mi raccomando, lasciami le copie sulla scrivania quando te ne vai».
Mi lascio sbattere fuori con un sorriso malcelato. Ora devo solo convincere il nonno a fare quella stramaledetta telefonata, oppure ce lo porto io domani dal suo amico, gli piombiamo in casa all’improvviso, a fare la questua, come i disgraziati che siamo.
«Che vuol dire che non ci può fa’ niente?».
Dall’altro capo del filo, il nonno è così irritante che mi viene voglia di frantumare il cellulare sul marciapiede. Sto andando a casa e la prima pioggia di primavera mi bagna i capelli.
«Che ne so io, Luchì, m’ha detto che gli dispiace ma che lui sta proprio in un altro settore e non ci conosce nessuno in Comune e comunque non gli sono mai piaciute ‘ste cose, le raccomandazioni e lì ho dovuto dargli ragione, eh».
«Ma vi siete tutti messi d’accordo per pigliarmi per il culo? Il tu’ cosiddetto amico t’ha detto una cazzata, sono tutti raccomandati in Comune e vedrai che anche dove sta lui non sarà tanto diversa la musica, eh, solo non c’ha voglia di sbattersi cinque minuti della sua vita per me e lo capisco pure, e scommetto che te hai lasciato subito perde’ eh, ci mancherebbe a insistere, a dare noia».
«Ma che dovevo fa’, precipitarmi a casa sua col fucile? Ascoltami Luchì, lascia perde’ il Comune, trovati un altro lavoro, quella non è roba per noi».
«Oh nonno ma che vuoi che trovi! Dio perbene, non fossi te ti manderei in culo! Posso fa’ di nuovo il cameriere, al massimo dare ripetizioni ai ragazzini, ma che ti credi che in questi anni non abbia mandato curriculum a destra e a sinistra, eh? Ce ne fosse uno che m’ha risposto! Anzi, m’hanno scritto sì, ma dall’estero, vuoi che me ne vada in Germania o in Inghilterra, eh?».
«Per l’amor di dio, Luchì, mi vuoi far mori’ senza rivederti più!».
La pioggia sta aumentando: mi riparo sotto la serranda di un bar ma continuo a bagnarmi le scarpe. Le ho pagate talmente poco che temo potrebbero sfaldarsi adesso, mentre il nonno va avanti col suo melodramma del nipote malvagio, che l’abbandona nel suo letto di dolore, come se non avesse mia madre che va da lui tutti i giorni.
«Certo se il Lucchesi facesse ‘sto sforzo, basterebbe una telefonata, un’allusione velata, guarda andrebbe bene anche una mail che dice: abbiamo una conoscenza comune».
«Oh che è la malle?».
«Lascia perdere nonno, ti invito in Germania, così prima di morire prendi anche l’aereo, eh? Ti garba l’idea?».
«Oh, non fa il bischero, montaci te su quei cosi per aria! Domani mattina lo vado a trova’ e ci parlo, vedrai che in faccia non me lo dice di no, io gli ho salvato la vita quel giorno, ho ammazzato un tedesco che gli stava per spara’, voglio vede’ se lui non alza il telefono!».
«Bravo ma spicciati e fammi sapere!».
Butto il cellulare in fondo alla tasca e mi spingo i pollici contro le palpebre. Ho bisogno di un amaro. Entro nel bar e mi bevo un Cynar, mentre fuori il diluvio s’accanisce contro due palme rovinate dal vento. Io, ‘sta moda delle palme non l’ho mai capita: sono sempre brutte, ridicole lontane dal loro contesto naturale.
Come me: io dovrei insegnare in una scuola, i ragazzi a cui davo ripetizioni mi adoravano, sapevo motivarli, incuriosirli senza fare il finto amico e invece niente. Devo sentirmi dare del fannullone dal Nocera, uno che davvero nella sua vita non ha mai fatto un cazzo, se non approfittarsi delle situazioni: laurea a trentun anni dopo una militanza attiva in formazioni extraparlamentari, la fama locale, il divertimento e poi la conversione al PCI che subito gli trova un posticino e da lì la scalata, cambiando sempre bandiera secondo dove tirava il vento, diventando il metereologo migliore sulla piazza.
Arrabbiarsi non serve: pago e sono di nuovo sotto la pioggia. Torno a casa. Da Michela. Nella mia prima sera da disoccupato.
L’appartamento del nonno ha quell’odore di persiane chiuse e ciarpame sedimentato nei decenni che si trova solo nei vecchi bar: quel gusto lì non va mai via, imbiancare è inutile, bisognerebbe scrostare pareti e pavimenti fino a togliere il cuore stesso del gesso e del legno, ma non ne vale la pena. Entro con la chiave che tiene sotto lo zerbino, denotando così scarsità di prudenza oltre che di fantasia. Ma tanto di campare gl’importa poco, ormai, giusto le piccole gioie: i nipoti, le partite della Juve e qualche mano di briscola, quando s’azzarda a uscire. Sta sempre qua, murato vivo, con il televisore a palla che vocia fin sulla strada quando è sveglio e le finestre sbarrate, se dorme. A quest’ora e con questo silenzio m’aspetto di trovarlo a ronfare sulla poltrona, con la Gazzetta tra le mani: salgo le scale lentamente, stringendo il mio pacchetto, e socchiudo la porta del salotto per non spaventarlo.
Avanzo nell’oscurità della stanza, guidato solo dal riverbero che si fa strada attraverso le tende e poi lo vedo, seduto dove me l’ero immaginato ma con gli occhi sbarrati, le braccia conserte.
«Nonno! Mi fai piglia’ un colpo! Che fai?».
«Che ore sono Luchì?».
«Le quattro, ma ti senti male? Ti fa male il petto? Chiamo l’ambulanza?».
«Mi sembri la tu’ mamma, datti una calmata e mettiti a sede’, io sto qui da stamani e ci sto proprio bene, se non arrivavi te capace che ci restavo anche stanotte».
Abbasso la testa a cercare il suo sguardo: non sembra uscito di testa, è solo vestito meglio del solito, con la camicia pulita e i pantaloni di velluto.
«Che c’hai da guarda’?».
«Ma nulla, no’, solo ecco, mi pare curioso che uno se ne stia mezza giornata su una poltrona, almeno hai mangiato? Guarda, t’ho portato mezza crostata di mele, l’ha fatta la Michela per te, lo sa che ti piace tanto…».
«Quella è una brava figliola, mettila lì, dopo l’assaggio, c’ho lo stomaco chiuso, poveri vecchi…».
Non lo vedevo così abbattuto dalla morte della nonna, e anche lì era più che altro arrabbiato, perché voleva andarsene prima lui e quello gli era sembrato un tradimento.
Sto per aprire bocca quando lui ricomincia a parlare.
«Oggi ho capito una cosa, Luchì, c’aveva ragione la mi’ maestra quando diceva beata ignoranza a noi che non avevamo voglia di studia’, infatti è meglio non saperle le cose».
«Ma nonno, che discorsi fai, guarda che noi dobbiamo festeggia’ adesso, t’ho portato il dolce apposta, quella merda del mi’ capo m’ha telefonato due ore fa per dirmi che dovevo passa’ a firma’ il nuovo contratto, un altro annetto di lavoro! Ti volevo ringrazia’, sei stato un grande!».
Una scintilla di interesse gli si riaccende negli occhi, ma potrebbe essere l’odore della torta, che è ancora calda: infatti leva la carta stagnola e ne stacca un pezzo.
«Insomma, è andata! Non ci credevo stavolta, il tuo amico deve avergliele suonate sul serio, eh? Manco me l’immaginavo che contasse così tanto».
Continua a mangiare, senza guardarmi in faccia.
«Niente Germania, eh no’, sei contento? Se ‘sto Lucchesi conta davvero magari alla fine m’assumono sul serio, ci pensi? A tempo indeterminato! Oh non eri te che ci dicevi a me e alla Michela di sposarci? Se m’assumono la sposo e magari facciamo anche un figliolo!».
«Per carità, non ne fate di figlioli, ci vuole una testa matta a mette’ al mondo una creatura al giorno d’oggi!».
«Nonno ma sei impazzito?».
«Luca, son contento per te, te lo meritavi, hai studiato tanto, io non c’ho mai avuto la testa, te sei il primo in casa che si laurea, quando mi dicevano che la laurea non serve a un piffero io li mandavo in culo ma ora dovrò dargli ragione: era meglio se ti portavo con me su per gli uliveti a impara’ a potare, Luigi e il su’ figliolo c’han fatto i soldi così, accidenti a me!».
«Ma che dici, che c’entra, figurati se sarei venuto a fa’ il boscaiolo, nel 2011!».
«Allora sei un bischero te!».
«Va bene, lasciamo perde’ eh, mangiati la torta e poi alzati che ti viene mal di schiena dopo. E ringrazia il tu’ amico Adelmo da parte mia, mi raccomando».
«E basta di’ che è mio amico, è uno stronzo come tutti quell’altri! Lascia perde’ Luchì, non n’ho voglia adesso, va’ a casa».
Ricade indietro sulla poltrona e stacca un altro gigantesco boccone dal dolce, scansando i miei occhi.
«Almeno mi levo l’amaro di bocca, oggi quell’uomo è riuscito a farmi vergogna’! Non m’ero mai vergognato in vita mia, nemmeno quando mi licenziarono dalla fabbrica, neanche quando in tempo di guerra mi toccò ruba’ i vestiti a una disgraziata per torna’ a casa! Mai! E ci riesce uno stronzo, ma accidenti a me che quel giorno non l’ho lasciato a mori’ ne’ boschi come un cane!».
«Nonno…».
«Lasciami perde’…».
Resto in piedi davanti a lui, a guardarlo divorare la crostata, mentre l’ansia mi sale dentro e la voglia di fumare pure: uscire, accendere un cicchino, passeggiare fino a casa, dimenticare.
Poi alza il viso e vorrei tornare piccolo, adesso, vorrei far sparire quest’uomo grande e grosso che ha mandato suo nonno a fare il lavoro sporco per lui e restituirgli quel bambino con gli occhiali rossi che giocava con lui a pallone nel campo, che gli nascondeva per dispetto le ciabatte e si vantava di quanto russava forte suo nonno. Quel bambino lì, che non sapeva tante cose.
«Ma l’hai davvero ammazzato un tedesco, quel giorno?».
Mi siedo vicino lui e aspetto di sentire il suo racconto.
Una volta ancora.
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